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Introduzione Teoria dell’Attaccamento

La teoria dell’attaccamento è un costrutto teorico, un insieme di comportamenti del bambino, un sistema di motivazioni, una relazione tra genitori e bambini, un’esperienza soggettiva del bambino sotto forma di modelli operativi, che sono in rapporto con quelli che si è costruito, derivandoli dai suoi genitori.

La teoria dell’attaccamento costituisce uno dei paradigmi di riferimento per lo studio dello sviluppo sociale la cui validità, come origine del disagio e dei traumi, è universalmente riconosciuta, perché dedotta dall’osservazione diretta dei bambini e confermata da diversi riscontri sperimentali di natura neurobiologica. Secondo John Bowlby i bambini nascono predisposti a stabilire dei legami di attaccamento con le figure della propria specie. La costruzione della relazione è un bisogno primario, per cui il neonato possiede le competenze necessarie per essere parte attiva fin dalla nascita, nelle sequenze comunicative con la madre o con chi si prende cura di lui (caregiver). Inizialmente, la teoria dell’attaccamento, si è sviluppata partendo dalla psicoanalisi delle relazioni oggettuali, integrando i concetti di base della teoria dell’evoluzione, dell’etologia, della teoria dei sistemi di controllo e dalla psicologia clinica. L’obiettivo era di spiegare alcuni schemi di comportamento, caratteristici nella relazione fra i bambini e i suoi genitori. Bowlby invece, ricavò i suoi dati dall’osservazione diretta del comportamento dei bambini molto piccoli, nel loro rapporto con la madre, sia in sua presenza, ma soprattutto in sua assenza. In particolare osservò che se persone sconosciute, lo allontanavano dalla madre, il bambino piccolo manifesta una reazione molto intensa e dopo essersi ricongiunto con lei, manifestava un’accentuata angoscia da separazione o un insolito distacco, indotto dal fatto che il bambino aveva rimosso i suoi sentimenti nei confronti della madre. Ora so cosa significa amare, ma il passato senza tempo è sempre in agguato. Ora sono grande e posso gridare o andare via... e fuggo da una realtà che non è nel passato, anche se il desiderio è di restare, ma il grido non può essere compreso da chi non sa, anche se ti è vicino. Iniziai così a dissociarmi da ciò che mi accadeva. In realtà non ero io, ma il mio cervello che attuava un meccanismo di protezione, al fine di memorizzare il trauma che subivo, fuori dalla coscienza. Questa strategia inconscia del cervello di proteggermi nasceva come conseguenza del fatto che non avevo nessuno con cui parlare delle esperienze che subivo. Inoltre ero costretta a reprimere le emozioni scatenate dall’abuso per evitare di subire ritorsioni. Con il trascorrere del tempo, questo modo di relazionarmi con me stessa, si è cristallizzato diventando così la strategia che adottavo anche quando non ero più in pericolo. Il reprimere gli stati emozionali ha compromesso la mia capacità a riconoscere ciò che provavo e quindi di poterlo esprimere consapevolmente. Il non poterla liberare, la tensione emotiva si manifestava mediante disturbi fisici, ansia, panico e in azioni impulsive incomprensibili verso gli altri. Le emozioni indotte dagli abusi che subivo che più frequentemente manifestavo, erano la rabbia, la disperazione, il senso di colpa, la vergogna. La rabbia era il segnale di allarme che poteva farmi capire che i miei sentimenti venivano calpestati. Tuttavia, non era la rabbia in sé che mi danneggiava, ma il modo in cui la gestivo. Generalmente la reprimevo, per il timore di subire ritorsioni, isolamento o ulteriori violenze. Da adulta ho capito che esprimere la rabbia è sinonimo di violenza e aggressività, mentre la sua repressione era un modo per evitare l’identificazione con chi mi abusava ed era stata indotta, molto probabilmente, dal silenzio che avvolgeva l’abuso che subivo. La rabbia repressa la rivolgevo contro me stessa, evitando il conflitto, adottando un atteggiamento passivo da cui emergeva il silenzio e in alcune circostanze la distanza fisica e affettiva. Da adulta, nel riconoscere la rabbia, ho compreso la sua importanza come segnale, per capire cosa dovevo cambiare e per individuare le situazioni in cui le mie esigenze vengono ignorate o calpestate. La disperazione mi ha fatto comprendere il senso della perdita dell’amore e della protezione che dovevo ricevere e il non percepire più un controllo sul mio corpo. La crudele abilità di chi mi ha rubato l’infanzia è stata di far emergere nella mia mente il senso di colpa, per farmi sentire complice e colpevole degli atti che subivo, in modo da giustificare i suoi comportamenti. Nel dirmi che le cose che facevamo era un gioco che si fa con le persone che si vogliono bene, mi ha indotto a credere che l’amore e l’affetto che mi donava lo dovevo compensare con i giochi sessuali che facevamo e che gli stimoli fisici che il mio corpo mi segnalavano era una conferma che provavo piacere e che lui si sacrificava per me. In realtà quelle reazioni del corpo erano normali risposte automatiche agli stimoli. Il mio senso di colpa si è rafforzato anche perché non riuscivo ad evitare quelli che LUI chiamava giochi, ciò mi faceva credere che fossi consenziente. L’abuso e il senso di colpa hanno determinato insicurezze e dubbi, mentre la vergogna per ciò che accadeva, mi faceva sentire indegna dell’affetto altrui. Il non essere amata era dovuto al fatto che fossi “Guasta”.

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